Caro Livio, troppo tardi

di Matteo Lai.

Quando nel 2007 nacque il Pd, solo una piccola parte di iscritti ai Ds decise di non aderire al nuovo partito, non ritrovandovi più le radici storiche della sinistra italiana. D’altro canto il nuovo leader Veltroni (beh, dai, lavato con Perlana, essendo stato in precedenza già segretario dei Ds) era stato chiaro: non un nuovo partito, ma un partito nuovo – un po’ togliattiano, ma chi volete che se ne accorga, avrà pensato il buon Walter -, la cui collocazione era il centrosinistra e la vocazione maggioritaria. Sappiamo tutti come finì: il Pd riuscì ad agglomerare il voto progressista, cannibalizzando la sinistra, che uscì dalla scena politica. Contemporaneamente, il risultato buono ma non eccellente del Pd, che scelse di correre insieme alla sola Italia dei Valori, riconsegnò il Paese a Berlusconi. Il “partito nuovo” veltroniano era delineato: un partito di centrosinistra che non guarda a sinistra. Stesso modello poi messo in atto, con maggior successo, da Renzi. L’eccezione è stata tutto ciò che è nel mezzo, non il contrario.

Livio Di TullioOggi il buon Renzi sta rendendo renziano il Pd, imponendo il proprio linguaggio e la propria agenda politica, oltre che controllando le primarie. In questo caso, però, ha ottenuto un risultato non voluto. Se prima le primarie erano disastrose per il Pd, il cui candidato erano spesso sconfitti, ma poi risultavano elettoralmente vincenti, oggi la dirigenza Pd impone il proprio candidato che, però, spesso rimane al palo. All in, si direbbe al tavolo verde: per ottenere tutto, non si è però avuto nulla. Proprio quello che è successo a Savona. Il Partito Democratico è uscito sconfitto da una competizione elettorale grazie alla propria arroganza ed autoreferenzialità, oltre che all’isolamento in cui si è lanciato il gruppo dirigente locale, riuscendo a bruciare una candidata più che decorosa, la cui maggior colpa è stata quella di non sapersi affrancare dai propri “sponsor”, così come la scarsa intelligenza politica di questi non gli ha permesso di comprendere quando fosse importante agire nelle retrovie.

IMG_2680In questo disastro si aggira, come un novello Nerone che suona l’arpa mentre Roma brucia, il buon Livio di Tullio. Il trattamento ricevuto in occasione delle primarie da Briano, Berruti e compagnia, hanno trasformato uno dei maggiori responsabili dell’azione amministrativa del Berruti 1 e 2 in un negletto rappresentante della sinistra più pura. In realtà la presenza di Di Tullio nella vita politica savonese è antica e radicata, sebbene la sua presenza si faccia sentire almeno da quando era ancora segretario della Camera del Lavoro di Savona. È proprio in questa veste, infatti, che nel 2001, in seguito alla conquista della Federazione savonese dei Ds da parte del “correntone” (unico caso in Italia unitamente a Vibo Valentia), mette pesantemente il suo “piede” nel partito. La mozione guidata da Giovanni Berlinguer, nella nostra provincia era infatti composta da esponenti Cgil, sinistra Ds, il gruppo ingauno guidato da Angioletto Viveri, oltre che da una parte del “partito degli amministratori” in rotta con la gestione dell’allora segretario De Cia. Questo gruppo eterogeneo trovo in Di Tullio il “deus ex machina” che impose un proprio uomo alla guida del partito.

di tullio battagliaDalla preistoria della politica che fu quel primo ingresso a gamba tesa, il nostro Livio ha fatto parecchia strada, fino a diventare assessore, segretario provinciale del Pd e vicesindaco. Nell’ultimo periodo lo vediamo bersaniano, poi quasi renziano nel momento di maggior afflato con il sindaco Berruti – che, a torto, si considerava il vero proconsole di Renzi sotto la Torretta -, fino alla rottura con la scelta di sostenere Cofferati alla primarie per le regionali. E poi: vedersi scaricato dal proprio partito al momento di scegliere il candidato sindaco, con la conseguente sconfitta alla Primarie, fino all’addio di pochi giorni fa. In circa un anno Di Tullio è passato dall’essere il frontman del Pd e dell’amministrazione Berruti, all’apparire come un reietto del suo stesso partito, fino a non farne più parte.

briano battagliaVerrebbe voglia di dire: “Livio, te l’avevamo detto che il Pd non faceva per te”. In realtà la considerazione da fare è un’altra. Basta questo ultimo periodo di passione per rendere nuovamente, come per magia, vergine (politicamente) in nostro Livio? Ovviamente no. Così come non basterebbe per i vari esponenti Ds, da Bersani e D’Alema a scendere, che sono stati, prima, gli entusiasti costruttori del Pd e, poi, i muti osservatori della deriva renzista e neocentrista. Ad oggi, da Civati a Cofferati fino a Di Tullio, la presa di coscienza che il Pd non è più collegabile con l’area di centrosinistra (di sinistra non lo è mai stato, per costituzione) è sempre e solo individuale, con un lento stillicidio di addii che, però, non causa nessun serio contraccolpo nel fortino renziano. Per cui oggi diciamo a Di Tullio quello che, probabilmente, diremo a breve a D’Alema: “Caro Livio, troppo tardi”.

La Sinistra italiana è al momento un cumulo di rovine tali al cui confronto Cartagine pareva Disneyland, dopo la terza guerra punica. Di più: il populismo leghista da un lato e quello Pentastellato dall’altra (sebbene spesso si uniscano, in una convergenza parallela di cui Moro andrebbe fiero), unito alla crisi economica e alla valanga di notizie che ogni giorno passano, sui media tradizionali e su internet, senza controllo e spesso senza reale comprensione da parte del fruitore finale, hanno creato un clima in cui vince chi parla alla pancia della gente, non chi si rivolge alla testa o al cuore. Forse è il momento in cui chi ha già dato tanto si faccia da parte, non prima però di aver dato una mano a togliere lo “zetto” delle macerie: per ricostruire, bisogna prima ripulire.

di tullio 2

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